Quando qualche tempo or sono si iniziò a parlare di smart city, alla
luce dell’importante azione di marketing messa in atto da alcuni grossi
attori del settore ICT, molti pensarono che questo termine e l’hype che
lo accompagnava si sarebbero presto esauriti come una moda passeggera.
Osservando ciò che sta accadendo in gran parte delle città del mondo, è
lecito pensare che sentiremo parlare ancora a lungo di smart city,
spesso con accezioni ben lontane dalle futuristiche promesse
ipertecnologiche della prima ora.
Oggi, come spesso afferma nelle sue presentazioni Jarmo Eskelinen[i], uno degli innovatori europei in questo settore, le città di dividono in tre grandi categorie:
In tutte, indifferentemente, è presente un problema di interoperabilità fra le molteplici applicazioni verticali che giorno dopo giorno le stanno popolando con strati di software, sensori e device di vario genere mentre mancano linguaggi e standard comuni e generalizzati.
In tutte, indifferentemente, a fianco della pulsione tecno-efficientista, sta prendendo piede un movimento che invece nasce dal basso e affronta i problemi urbani avvalendosi non solo delle tecnologie ma sopratutto della capacità di coinvolgere gli abitanti grazie alle stesse tecnologie. È il lato “human” della Smart City, con cui tutte le città stanno iniziando a fare i conti[iv].
Che siano costruite da zero, vecchie signore a volte decadenti o degradati ammassi informi, città in tutti i continenti hanno però compreso che questa straordinaria tecnologia così diffusa non solo sul territorio ma fra gli abitanti è in grado di dare un impulso decisivo all’evoluzione delle forme del vivere urbano, alle modalità di erogazione dei servizi essenziali, all’efficienza di esercizio delle funzioni elementari. A patto che si riescano a fare cambiamenti radicali su molteplici piani.
Cambia la prospettiva geografica con cui si disegna lo spazio urbano. I danni irreparabili dell’urban sprowl sono noti e prendono piede concept della città ben più stimolanti della villetta a schiera a un’ora d’auto dal centro storico. I modelli sono vari ma la sostanza non cambia, dalla “Twenty minutes walkable city” di cui parla Kent Larson[v] del MIT di Boston, una città fatta di tante micro città dove tutti i servizi essenziali sono raggiungibili camminando una ventina di minuti, alla “Città fatta di quartieri a velocità umana dentro ad una metropoli iperconnessa a zero emissioni”, ovvero la Barcellona immaginata dal suo architetto capo Vicente Guallart[vi]. Il quale introduce un altro concetto interessante, la variabile tempo nella progettazione dello spazio urbano. Strade che nei giorni feriali servono al traffico e poi si trasformano nel week end in aree pedonali dove non solo si cammina ma possono svolgersi delle attività. È incredibile vedere cosa accade a Quito, in Equador, la domenica mattina, quando uno degli assi stradali principali che attraversa longitudinalmente la città viene chiuso al traffico e questa specie di autostrada, da caotico serpentone di auto incolonnate si trasforma in una colorato andirivieni di biciclette di ogni forma e prestazione, monumento vivente della riappropriazione dello spazio da parte dei cittadini e dell’iniziativa imprenditoriale[vii]. A lato della strada spuntano infatti come funghi punti di gonfiaggio e assistenza, noleggi, banchetti di ristoro. È lo spazio urbano che diviene community asset variamente fruibile.
Cambiano i fondamentali economici della città, scossa dalla sharing economy e che diviene – come sostiene Esteve Almirall[viii] nelle sue lezioni - piattaforma per un “real time everything”. È la città on demand in ogni suo componente.
Ecco allora che cambia anche il ruolo delle amministrazioni pubbliche, le quali da “service provider” sono costrette a divenire “ecosystem manager” di un ambiente dove si riducono sempre di più le relazioni gerarchiche verticali a vantaggio di network dove le relazioni sono bidirezionali, dinamiche e spesso continuamente ridefinite. Anche qui occorrono cambiamenti.
La verità è che “Trust is not an app”, la fiducia non si ottiene facilmente come un’applicazione, bisogna lavorare nel tempo e duramente per costruire una smart city a misura d’uomo e forse il modello migliore per operare è ancora una volta ritornare a lavorare a livello di quartieri, di realtà territoriali piccole ma coerenti per sperimentare le soluzioni in modalità Living Labs[xiv] e iniziare a (ri)costruire quella stima reciproca fra gli attori del territorio che spesso si è persa nel tempo e nell’inefficienza.
Questo articolo è la prefazione alla pubblicazione "La Smart City al servizio del cittadino. La Call for papers di smart city exhibition 2013"pubblicato a dicembre 2013
Oggi, come spesso afferma nelle sue presentazioni Jarmo Eskelinen[i], uno degli innovatori europei in questo settore, le città di dividono in tre grandi categorie:
- le tech city, come Masdar[ii], Songdo[iii], e forse anche Singapore, che propongono soluzioni con una forte caratterizzazione tecnologica ed efficientista, spesso agevolate dalla possibilità di costruire infrastrutture su terreni vergini e senza particolari vincoli preesistenti;
- le retrofit city, come Amsterdam, Helsinki, Barcellona, gran parte delle città italiane, dove l’innovazione tecnologica e quella sociale devono convivere con infrastrutture spesso obsolete e la storia, la cultura e i legami di un passato che non possono essere cancellati, semmai valorizzati;
- le chaos city, tipiche dei paese del
terzo mondo, ma non solo, dove le infrastrutture non ci sono o sono
insufficienti e regna il disordine.
In tutte, indifferentemente, è presente un problema di interoperabilità fra le molteplici applicazioni verticali che giorno dopo giorno le stanno popolando con strati di software, sensori e device di vario genere mentre mancano linguaggi e standard comuni e generalizzati.
In tutte, indifferentemente, a fianco della pulsione tecno-efficientista, sta prendendo piede un movimento che invece nasce dal basso e affronta i problemi urbani avvalendosi non solo delle tecnologie ma sopratutto della capacità di coinvolgere gli abitanti grazie alle stesse tecnologie. È il lato “human” della Smart City, con cui tutte le città stanno iniziando a fare i conti[iv].
Che siano costruite da zero, vecchie signore a volte decadenti o degradati ammassi informi, città in tutti i continenti hanno però compreso che questa straordinaria tecnologia così diffusa non solo sul territorio ma fra gli abitanti è in grado di dare un impulso decisivo all’evoluzione delle forme del vivere urbano, alle modalità di erogazione dei servizi essenziali, all’efficienza di esercizio delle funzioni elementari. A patto che si riescano a fare cambiamenti radicali su molteplici piani.
Cambia la prospettiva geografica con cui si disegna lo spazio urbano. I danni irreparabili dell’urban sprowl sono noti e prendono piede concept della città ben più stimolanti della villetta a schiera a un’ora d’auto dal centro storico. I modelli sono vari ma la sostanza non cambia, dalla “Twenty minutes walkable city” di cui parla Kent Larson[v] del MIT di Boston, una città fatta di tante micro città dove tutti i servizi essenziali sono raggiungibili camminando una ventina di minuti, alla “Città fatta di quartieri a velocità umana dentro ad una metropoli iperconnessa a zero emissioni”, ovvero la Barcellona immaginata dal suo architetto capo Vicente Guallart[vi]. Il quale introduce un altro concetto interessante, la variabile tempo nella progettazione dello spazio urbano. Strade che nei giorni feriali servono al traffico e poi si trasformano nel week end in aree pedonali dove non solo si cammina ma possono svolgersi delle attività. È incredibile vedere cosa accade a Quito, in Equador, la domenica mattina, quando uno degli assi stradali principali che attraversa longitudinalmente la città viene chiuso al traffico e questa specie di autostrada, da caotico serpentone di auto incolonnate si trasforma in una colorato andirivieni di biciclette di ogni forma e prestazione, monumento vivente della riappropriazione dello spazio da parte dei cittadini e dell’iniziativa imprenditoriale[vii]. A lato della strada spuntano infatti come funghi punti di gonfiaggio e assistenza, noleggi, banchetti di ristoro. È lo spazio urbano che diviene community asset variamente fruibile.
Cambiano i fondamentali economici della città, scossa dalla sharing economy e che diviene – come sostiene Esteve Almirall[viii] nelle sue lezioni - piattaforma per un “real time everything”. È la città on demand in ogni suo componente.
- La casa e gli uffici, sempre più adattabili negli arredi, negli spazi, nelle funzioni, grazie a tecnologie, materiali innovativi e concetti diversi del vivere e lavorare. Spazi che mai come prima sono flessibili (co-working), affittabili (AirBNB[ix]), produttivi (3D printing, Fab Lab[x]).
- La mobilità sempre più on demand, grazie a forme di sharing, di noleggio[xi] e a soluzioni di social innovation che consentono di condividere viaggi, esperienze, costi[xii].
- Il rapporto fra cittadini e amministrazione, che viene ribaltato nelle fondamenta dalle opportunità partecipative offerte dalle nuove tecnologie. È la Boston di “Adopt a whatever”, dove la dottrina della New Urban Mechanics[xiii] porta i cittadini a farsi carico di funzioni che prima erano (mal) gestite dall’amministrazione.
Ecco allora che cambia anche il ruolo delle amministrazioni pubbliche, le quali da “service provider” sono costrette a divenire “ecosystem manager” di un ambiente dove si riducono sempre di più le relazioni gerarchiche verticali a vantaggio di network dove le relazioni sono bidirezionali, dinamiche e spesso continuamente ridefinite. Anche qui occorrono cambiamenti.
- Il comportamento interno alle amministrazioni, che deve aprirsi al confronto continuo con la città e introdurre una “variabile innovazione” costante.
- Le relazioni, che devono essere sempre più fluide e facilitate fra i molteplici stakeholder del territorio.
- L’accesso alle risorse, per condividere i tools necessari alla costruzione della smart city: prima di tutto i dati (open data) e la conoscenza (open innovation).
La verità è che “Trust is not an app”, la fiducia non si ottiene facilmente come un’applicazione, bisogna lavorare nel tempo e duramente per costruire una smart city a misura d’uomo e forse il modello migliore per operare è ancora una volta ritornare a lavorare a livello di quartieri, di realtà territoriali piccole ma coerenti per sperimentare le soluzioni in modalità Living Labs[xiv] e iniziare a (ri)costruire quella stima reciproca fra gli attori del territorio che spesso si è persa nel tempo e nell’inefficienza.
Questo articolo è la prefazione alla pubblicazione "La Smart City al servizio del cittadino. La Call for papers di smart city exhibition 2013"pubblicato a dicembre 2013
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[i]
Jarmo Elukka Eskelinen è il Presidente dello European Network of Living
Labs e il direttore di Forum Virium Helsinki, l’agenzia pubblica che si
occupa di innovazione nell’area metropolitana di Helsinki. Il suo
lavoro si concentra sui diversi ambiti dell’innovazione nella
amministrazione pubblica e nei servizi. Un esempio può essere visto in
questo video: http://vimeo.com/50355181
[ii] http://www.masdar.ae
[iii] http://www.songdo.com/
[iv]
Il concetto di Human Smart City è stato sviluppato per la prima volta
nell’ambito del progetto europeo Peripheria e ha portato alla
realizzazione della pubblicazione : “Human Smart City Cookbook”,
scaricabile dal sito del progetto:
http://peripheria.eu/library/human-smart-cities-cookbook
[v]
Kent Larson dirige il Media Lab’s Changing places group del MIT. È
anche il direttore del House research consortium della Scuola di
Architettura e Planning. Il suo lavoro si concentra in particolare sulla
città responsiva, dove case, uffici, spazi pubblici si adattano grazie
alle tecnologia alle esigenze delle persone. Un esempio del suo lavoro è
descritto in un suo recente TED talk:
http://www.youtube.com/watch?v=70VZ1_Oz_nc
[vi]
Vicente Guallart è l’architetto capo di Barcellona ed uno dei fondatori
della City Protocol Society. I suoi lavori lo hanno portato a
sviluppare il concetto di city anatomy e di edifici autosufficienti.
Alcuni esempi dei suoi lavori sono visibili in questo Ted Talk: http://www.youtube.com/watch?v=WGozbiymBZc oppure nel suo intervento a Smart City Exhibition: http://www.youtube.com/watch?v=-wLgVoTepP0
[vii]
Il Quito Ciclopaseo è una iniziativa nata nel 2003 che prevede di
riservare a biciclette e pedoni 30 km di strade tutte le domeniche dalle
8 alle 14. http://en.wikipedia.org/wiki/Ciclopaseo_in_Quito,_Ecuador
[viii]
Esteve Almirall è professore alla ESADE university di Barcellona e il
suo lavoro si concentra in particolare sul concetto di Open Innovation
nel settore pubblico e nel ruolo che in esso possono avere gli open
data. Un esempio del suo lavoro può essere visto in questo intervento a
Res Publica 2013: http://www.youtube.com/watch?v=1u1x3d8fVPE
[x]
I Fab Lab – fabrication laboratory – sono laboratori in piccola scala
che offrono la possibilità di condividere l’uso di stampanti
tridimensionali e altre apparecchiature digitali per la prototipazione e
la realizzazione di artefatti. La rete dei Fab Lab è stata avviata dal
MIT. http://en.wikipedia.org/wiki/Fab_lab
[xi] Un buon esempio di noleggio on demand è http://www.zipcar.com/
[xii] Un buon esempio di condivisione dei viaggi è Bla Bla Car: http://www.blablacar.it
[xiii]
La New Urban Mechanics è un modello innovativo di approccio ai servizi e
alla partecipazione nelle città lanciata dalle città di Boston e
Philadelphia. http://www.newurbanmechanics.org/
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